RV – Valutazione Rischi Specifici

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RV – Valutazione Rischi Specifici

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FONOMETRIA

 (Interna & Esterna)

 Fra i tanti nuovi fattori di rischio che devono essere obbligatoriamente valutati in tutte le imprese rientra anche quello dell’esposizione dei lavoratori al rumore. Infatti l’eccessiva “convivenza” con alti livelli sonori può provocare una serie di danni uditivi ed extrauditivi. Il più evidente e certamente conosciuto è l’ipoacusia che comporta la diminuzione delle facoltà uditive. Non è questa la sede per approfondire l’aspetto fisiologico e sanitario, ma va comunque evidenziato che possono emergere problemi anche all’apparato cardiovascolare e gastrointestinale, proprio per una elevata e non corretta esposizione al rumore. Sulle modalità di valutazione di questo rischio sono sorti numerosi equivoci legati alla libera interpretazione personale di un testo normativo (D.Lgs. 277/1991 artt. 39 e seguenti) invece chiarissimo. Molti ritengono che non essendo presente in azienda un rumore cosiddetto “molesto” non sia necessario procedere ad ulteriori verifiche. La legge, invece, fornisce precise indicazioni sulla metodologia da applicare per misurare il rumore, indica quali sono gli strumenti idonei, le formule da utilizzare per eseguire il calcolo dell’esposizione personale e quali azioni intraprendere in relazione al livello di rumore calcolato. Quindi non basta non “sentire” il rumore, occorre “misurarlo” avvalendosi di tecnici competenti e di strumenti idonei (fonometri omologati); i valori
sono indicati in decibel (dB) per il picco assoluto di esposizione ed in db(A) per la misura dell’esposizione media. Solo così potrà essere correttamente definito il livello di rischio a cui è esposto ogni singolo lavoratore, in funzione delle mansioni svolte. I valori di picco non possono assolutamente superare i 140 dB, mentre l’esposizione media ponderata dovrebbe essere inferiore a 80 dB(A). In caso di valori superiori occorre intraprendere delle azioni di prevenzione e protezione.

LUXOMETRIA e MICROCLIMA

Microclima

Il microclima é l’insieme dei fattori (es. temperatura, umidità, velocità dell’aria) che regolano le condizioni climatiche di un ambiente chiuso o semi-chiuso come ad esempio un ambiente di lavoro. Considerando che la maggior parte della popolazione urbana trascorre il 75-80% del tempo all’interno di edifici chiusi, è facilmente intuibile quale importanza rivesta la qualità del microclima per il benessere dell’uomo. L’organismo umano deve mantenere sempre una costanza termica; variazioni della temperatura oltre i normali limiti determinano sofferenze delle principali funzioni fisiologiche con ripercussioni più o meno gravi sulle capacità lavorative e, in condizioni estreme, a manifestazioni patologiche. Il corpo umano deve inoltre difendersi dal calore assunto dall’ambiente, o dal calore emanato per radiazione da oggetti con temperatura superiore alla propria (masse più calde, sole, suolo riscaldato, ecc.). E’ chiaro quindi che la temperatura dell’aria e la presenza di masse radianti rivestono grande importanza nella valutazione del microclima.

Luxometria

L’illuminazione rappresenta uno dei principali fattori ambientali atti ad assicurare il benessere nei luoghi di lavoro. Una corretta illuminazione, oltre a contribuire all’incremento della produttività, riveste grande importanza della prevenzione degli infortuni sul lavoro. Valori di illuminazione errati, sia in difetto che in eccesso, oltre ad agire negativamente sulla componente psichica del lavoratore con disaffezione dal lavoro e conseguente scadimento delle capacità lavorative, possono produrre disfunzioni dell’organo della vista. L’illuminazione dei luoghi di lavoro deve essere ottenuta per quanto è possibile con luce naturale poiché essa è più gradita all’occhio umano, e quindi meno affaticante e possiede una discreta azione germicida grazie alla sua componente ultravioletta. In ogni caso, tutti i locali e i luoghi di lavoro devono essere dotati di adeguata luce artificiale per la sicurezza e la salute dei lavoratori. La luce solare diretta è sconsigliabile negli ambienti di lavoro in quanto determina abbagliamento o fastidiosi riflessi. L’illuminazione degli ambienti di lavoro (espressa in lux) deve essere ovviamente valutata sulla base delle varie attività lavorative.

EMISSIONI ATMOSFERICHE

Le Ditte hanno l’obbligo di:

 – presentare domanda di autorizzazione per nuovi impianti e per modifiche di impianti esistenti ai sensi dell’art. 269 e dell’art. 275 con procedura ordinaria

 – comunicare le modifiche non sostanziali ai sensi dell’art. 269 comma 8

 – comunicare i cambiamenti di ragione sociale

Le Ditte hanno facoltà di:

 – comunicare la presenza di impianti/attività ad inquinamento atmosferico scarsamente rilevante ai sensi dell’art. 272 comma 1
– aderire alle autorizzazioni a carattere generale rilasciate dalla Provincia di P per particolari categorie di impianti/attività ai sensi dell’art. 272 comma 2

DURATA AUTORIZZAZIONI

Le autorizzazioni hanno validità 15 anni.

La domanda di RINNOVO per gli impianti autorizzati con procedura ordinaria deve essere presentata almeno un anno prima della scadenza.

PROROGHE

La richiesta di proroghe deve essere sempre esaurientemente e tecnicamente motivata e deve essere inoltrata almeno 15 giorni prima della scadenza prevista per permettere all’Amministrazione di valutarla e dare l’assenso; si ricorda che in mancanza di assenso scritto resta in vigore la scadenza originariamente prevista, NON vale il silenzio assenso.

RISCHIO RADON

Il radon (Rn) è un gas inerte e radioattivo di origine naturale. È un prodotto del decadimento nucleare del radio all’interno della catena di decadimento dell’uranio. Il suo isotopo più stabile è il radon-222 che decade nel giro di pochi giorni, emettendo radiazioni ionizzanti di tipo alfa e formando i suoi cosiddetti prodotti di decadimento o “figli”, tra cui il polonio-218 e il polonio-214 che emettono anch’essi radiazioni alfa. Il radon è inodore, incolore e insapore, quindi non è percepibile dai nostri sensi. Se inalato, è considerato molto pericoloso per la salute umana poiché le particelle alfa possono danneggiare il Dna delle cellule e causare cancro al polmone.

Il radon è presente in tutta la crosta terrestre. Si trova nel terreno e nelle rocce ovunque, in quantità variabile. Il suolo è la principale sorgente del radon che arriva in casa. I materiali edili che derivano da rocce vulcaniche (come il tufo), estratti da cave o derivanti da lavorazioni dei terreni, sono ulteriori sorgenti di radon. Essendo un gas, il radon può spostarsi e sfuggire dalle porosità del terreno disperdendosi nell’aria o nell’acqua. Grazie alla forte dispersione di questo gas in atmosfera, all’aperto la concentrazione di radon
non raggiunge mai livelli elevati ma, nei luoghi chiusi (case, uffici, scuole ecc) può arrivare a valori che comportano un rischio rilevante per la salute dell’uomo, specie per i fumatori. Valori di riferimento e normativa Molti Paesi hanno emanato delle normative o raccomandazioni per far sì che i livelli di concentrazione del radon non superino determinati valori di riferimento, detti anche “livelli di azione”. Nelle abitazioni: esistono valori di riferimento tra 150 e 1000 Bq/metro cubo, ma la maggior parte dei Paesi
li ha fissati tra 200-400 Bq/metro cubo. Molte nazioni hanno adottato valori di riferimento unici per case già costruite ed edifici da costruire. Per esempio: Stati Uniti 150 Bq/metro cubo, Inghilterra e Irlanda 200 Bq/ metro cubo, Germania 250 Bq/metro cubo, Svezia 400 Bq/metro cubo. In realtà, nel 1990 la Commissione europea ha stabilito due valori di riferimento per la concentrazione di radon, superati i quali è raccomandato un intervento di bonifica: 400 Bq/metro cubo per gli edifici già esistenti e 200 Bq/metro cubo per quelli ancora da costruire. In Italia, non essendoci ancora una normativa nazionale (prevista tra le azioni del Piano nazionale radon), si può per ora far riferimento alla citata Raccomandazione CEC 90/143. negli ambienti di lavoro: in Italia, con il Decreto legislativo 26/05/00 n. 241, si è fissato un livello di 500 Bq/ metro cubo, superato il quale il datore di lavoro deve valutare in maniera più approfondita la situazione e, se il locale è sufficientemente frequentato da lavoratori, intraprendere azioni di bonifica.

La concentrazione di radon deve essere misurata in tutti i luoghi di lavoro sotterranei. Inoltre, le Regioni (e le Province autonome di Trento e Bolzano) devono fare una mappatura del territorio per individuare le zone più a rischio e in cui è necessario misurare la concentrazione di radon anche nei locali non sotterranei, con priorità per i locali seminterrati e al piano terra:

• nell’acqua potabile: le linee guida fornite dall’Oms e dalla Commissione europea raccomandano un’intensificazione dei controlli se la concentrazione di radon nelle riserve di acqua potabile supera i 100 Bq/litro. Gli Stati Uniti hanno proposto un limite massimo di 159 Bq/litro per le riserve private d’acqua. La Commissione europea raccomanda azioni immediate oltre i 1000 Bq/litro. In Italia, il Consiglio superiore di sanità ha raccomandato che la concentrazione di radon nelle acque minerali e imbottigliate non superi i 100
Bq/litro (32 Bq/litro per le acque destinate ai bambini e ai lattanti).

Gli interventi possibili Anche se non è possibile eliminare del tutto il radon dagli ambienti in cui si vive, ci sono diversi modi (con diversa efficacia) per ridurne la concentrazione nei luoghi chiusi, tra cui:

• depressurizzare il suolo, realizzando sotto o accanto la superficie dell’edificio un pozzetto per la raccolta del radon, collegato a un ventilatore. In questo modo, si crea una depressione che raccoglie il gas e lo espelle nell’aria esterna all’edificio
• pressurizzazione dell’edificio: aumentando la pressione interna, si può contrastare la risalita del radon dal suolo.
• migliorare la ventilazione dell’edificio Fondamentale è, poi, fare in modo che per le nuove costruzioni si adottino criteri anti-radon, come sigillare le possibili vie di ingresso dal suolo, predisporre un vespaio di adeguate caratteristiche cui poter facilmente applicare, se necessario, una piccola pompa aspirante ecc.

RISCHIO CHIMICO

D.Lgs 626/94: Rischio chimico

Il D.Lgs. 25 del 02 Febbraio 2002 già in vigore da Giugno 2002 rappresenta un’importante modifica alla normativa attuale in materia di sicurezza sul lavoro. Il testo di tale decreto, integrato nella 626/94 come “Titolo VII bis”, definisce gli ulteriori criteri di sicurezza da adottare negli ambienti di lavoro, nei confronti dei lavoratori quando quest’ultimi possono trovarsi esposti a pericoli derivanti da un agente chimico. Da ciò ne conseguono due importanti precisazioni;

1. nella definizione di agente chimico si intende qualsiasi cosa sia esso sostanza o preparato di natura chimica che rappresenta un pericolo per il lavoratore; pertanto rientrano all’interno del campo di applicazione di questo decreto anche quelle sostanze già prese in considerazione dalla Legge italiana come il piombo e le sostanze cancerogene in generale, (tuttavia il presente decreto non sostituisce le disposizioni specifiche in materia di agenti cancerogeni presenti nel Titolo VII della 626, ma le integra), sia quelle sostanze che pur non essendo pericolose per loro stessa definizione possono comunque rappresentare un pericolo in determinate condizioni, come ad esempio l’acqua bollente o l’azoto liquido;

2. nella valutazione del rischio a cui sono soggetti i lavoratori, bisogna tener presente tutte le attività connesse al processo produttivo, come il trasporto, la manutenzione o la produzione di scarti di lavorazione che possono determinare una particolare esposizione per certi lavoratori. Ne deriva perciò che molte aziende, pur non essendo per definizione aziende chimiche, rientrano comunque all’interno del campo di applicazione del presente decreto, come ad esempio le piccole e medio imprese che adoperano determinati agenti
chimici per la pulizia dei locali e delle attrezzature di lavoro o come officine meccaniche, in cui i lavoratori sono esposti a fumi di saldatura per effetto dell’attività svolta.

Da precisare che sono esclusi dalla presente normativa l’amianto, gli agenti chimici (sostanze e preparati) pericolosi per l’ambiente ed alcune attività di trasporto internazionale di agenti chimici pericolosi, in quanto ben definiti da specifica normativa.
Il datore di lavoro, prima di iniziare una qualsiasi attività produttiva, o quando sono avvenuti notevoli cambiamenti tali da modificare l’esposizione dei lavoratori, deve effettuare una valutazione del rischio a cui possono essere esposti i dipendenti tenendo in considerazione alcuni parametri. Verificati tutti questi parametri, il datore di lavoro deve giungere alla conclusione se l’esposizione a cui sono soggetti i lavoratori comporta un rischio moderato o non moderato per la loro sicurezza. Il concetto di moderato lascia però ampia interpretazione al datore di lavoro sulla reale entità del rischio a cui possono essere soggetti o meno i lavoratori. Infatti, fatta eccezione per il piombo, per cui viene definita un’esposizione limite espressa come media ponderata nell’arco di una settimana lavorativa di 40 ore di 8 ore per giornata lavorativa pari a 0,075mg/m3 al di sotto della quale si può considerare il rischio moderato; per tutti gli altri agenti chimici non esistono valori definiti dalla Legge italiana. Ne deriva perciò, un’estrema soggettività nell’interpretazione del rischio da parte del datore di lavoro che, per affrontare correttamente la valutazione del rischio dovrebbe ricorrere a misurazioni specifiche per ciascun agente chimico o ricorrere a software specifici. Le stesse misurazioni non sono però sufficienti a definire la reale modestia del rischio chimico poiché i valori limite di TLV (Threshold Limit Value ovvero Valore Limite di Soglia) esprimono la soglia oltre la quale esiste un rischio concreto per il lavoratore e perciò ben al di sopra di quello che è il concetto di moderato.

Il D.Lgs. 25 del 02 Febbraio 2002 già in vigore da Giugno 2002 rappresenta un’importante modifica alla normativa attuale in materia di sicurezza sul lavoro. Il testo di tale decreto, integrato nella 626/94 come “Titolo VII bis”, definisce gli ulteriori criteri di sicurezza da adottare negli ambienti di lavoro, nei confronti dei lavoratori quando quest’ultimi possono trovarsi esposti a pericoli derivanti da un agente chimico. Mettere a norma la propria azienda non è particolarmente difficoltoso se ci si affida ad un buon servizio di
consulenza.

RISCHIO AMIANTO

Per molti anni il rischio di esposizione alle fibre di amianto è stato legato soltanto ai lavoratori del settore; solo a partire dagli anni ottanta l’attenzione si è spostata sulle esposizioni non professionali e sulla possibilità di considerare l’amianto un contaminante ambientale. Sulla base di queste considerazioni, oltre alla Legge 257/92, che vieta nel nostro paese l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, sono stati emanati alcuni decreti e circolari applicative con l’obiettivo di gestire il potenziale pericolo derivato dalla presenza di amianto negli edifici, manufatti e coperture. La messa al bando dell’utilizzo delle fibre naturali di amianto ha determinato che oggi solo gli operatori addetti allo smaltimento dei prodotti contenenti asbesto o alla bonifica degli ambienti, in cui è stato applicato, risultano professionalmente esposti.

RISCHIO VIBRAZIONI

Con Decreto Legislativo n. 187 del 19 agosto 2005, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 220 del 21.9.2005, emanato in esecuzione della Legge Delega n. 306 del 31.10.2003, lo Stato italiano ha dato attuazione alla Direttiva 2002/44/CE in materia di tutela della salute dei lavoratori rispetto al rischio “vibrazioni”. Il D. Lgs. n. 187 del 19 agosto 2005 al pari della Direttiva, il cui contenuto (salvo pochissime modifiche) riproduce integralmente, si pone l’obiettivo di salvaguardare non solo la salute e la sicurezza del lavoratore
nella sua individualità, ma anche di creare una piattaforma di protezione minima per un rischio professionale che determina annualmente il 5% delle malattie professionali indennizzate dall’INAIL.

CAMPO DI APPLICAZIONE della norma sono tutte le attività in cui i lavoratori sono esposti o possono essere esposti a rischi derivanti da vibrazioni meccaniche che l’art. 2 distingue, in ragione della possibile patologia conseguente, in:

1) vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio, quelle “vibrazioni meccaniche che, se trasmesse al sistema mano-braccio comportano un rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori, in particolare disturbi vascolari, osteoarticolari, neurologici o muscolari;

2) vibrazioni trasmesse al corpo intero, quelle “vibrazioni meccaniche che, se trasmesse al corpo intero, comportano rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, in particolare lombalgie e traumi del rachide”.

Al fine della valutazione del rischio, inoltre, il datore di lavoro deve tener conto:

1) del livello, del tipo e della durata della esposizione, ivi inclusa l’esposizione a vibrazioni intermittenti o a urti ripetuti;
2) dei valori limite di esposizione e dei valori di azione sopra indicati;
3) degli eventuali effetti sulla sicurezza e sulla salute di lavoratori particolarmente sensibili al rischio;
4) degli eventuali effetti indiretti sulla sicurezza dei lavoratori risultanti da interazioni tra le vibrazioni meccaniche e l’ambiente di lavoro o altre attrezzature;
5) delle informazioni fornite dal costruttore;
6) dell’esistenza di attrezzature alternative progettate per ridurre il rischio;
7) del prolungamento del periodo di esposizione;
8) delle condizioni di lavoro particolari, come le basse temperature;

9) delle informazioni raccolte dalla sorveglianza sanitaria, comprese, per quanto possibile, quelle reperibili nella letteratura scientifica.

RISCHIO BIOLOGICO

I soggetti esposti a rischio biologico possono contrarre una malattia infettiva, ossia una forma morbosa, determinata da un agente biologico capace di penetrare, moltiplicarsi e produrre effetti dannosi in un organismo vivente, e che successivamente è in grado di allontanarsi da esso e di penetrare in altri organismi. Le più frequenti modalità di contaminazione in un laboratorio biologico sono rappresentate da: inoculazione di materiale infetto attraverso la cute generalmente per cause accidentali, ingestione di materiale infetto per aspirazione diretta di liquidi infetti durante la pipettatura a bocca o per contaminazione delle mani, formazione di aerosol conseguente all’apertura di contenitori, di provette e capsule di Petri o all’impiego di agitatori, siringhe, centrifughe. La protezione da agenti biologici è regolata dal Titolo X del D. Lgs 81/08. Le norme contenute si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici.

Ai sensi di legge si intende per:

a) agente biologico: qualsiasi microrganismo, anche geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni;

b) microrganismo: qualsiasi entità microbiologica, cellulare o meno, in grado di riprodursi o trasferire materiale genetico;

c) coltura cellulare: il risultato della crescita in vitro di cellule derivate da organismi pluricellulari. Gli agenti biologici vengono classificati in quattro gruppi, per rischio crescente di infezione. Gli obblighi del datore di lavoro e le misure di prevenzione e protezione dei lavoratori sono condizionati dalla differente patogenicità dei microrganismi. Gli adempimenti sono diversi a seconda che si utilizzino agenti biologici rispettivamente dei gruppi 2 e 3 da un lato e 4 dall’altro. Per le attività che contemplano l’uso di agenti biologici devono essere attuate misure tecniche, organizzative, e procedurali per evitare o ridurre al minimo l’esposizione. Gli addetti alle attività per le quali vi sia un rischio per la salute dovuto ad esposizione ad agenti biologici devono essere sottoposti alla sorveglianza sanitaria.

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